21 gennaio 2012

Il covo di Stato.

Non sono pochi coloro che considerano Sergio Flamigni (ex parlamentare del Pci, e membro di importanti commissioni d'inchiesta quali P2, Moro ed Antimafia) un complottista. Giudizio volutamente ingeneroso, poiché Flamigni ha il grande merito di non aver mai abbassato la guardia sui segreti del caso Moro, di non aver mai creduto ciecamente alle versioni dei "dissociati". I fautori del "non c'è altro da sapere" non possono che considerarlo come il fumo negli occhi. Flamigni è tutt'altro che complottista, perché ha la buona abitudine di dare una grande importanza ai fatti, di cercare nei documenti, di inseguire riscontri incrociati. Come in occasione di precedenti libri, tutto ciò è confermato ne "Il covo di Stato - Via Gradoli 96 e il delitto Moro". L'inchiesta è condotta con scrupolo, si legge con avidità perché ci si può fidare, non vengono esposte teorie ma vengono inanellati i fatti, le date, i nomi ed i cognomi. Insomma, ciò che serve quando si scrive sul rapimento di Aldo Moro con l'intenzione di chiarire davvero cosa sia successo.
Nel caso del covo di Via Gradoli, base operativa dei vertici della colonna romana delle Brigate Rosse, c'è addirittura una sovrabbondanza di materiale, perché i fatti sono numerosi, chiari ed inoppugnabili. Lo scandalo dell'utilizzo dei fondi riservati del Sisde da parte di alcuni esponenti dei Servizi, scoppiato nella prima metà degli anni Novanta, ha aperto uno squarcio sull'attività di molti personaggi, svelando una connessione fenomenale con gli eventi del 1978. Le prove documentali non lasciano dubbi sul fatto che l'appartamento abitato in Via Gradoli da Mario Moretti fosse letteralmente circondato da immobili nella disponibilità di fiduciari dei servizi segreti italiani. L'intreccio tra uomini e società immobiliari è impressionante, e testimonia la disinvoltura con la quale operavano queste persone. Ritenere una semplice casualità che in mezzo a questo groviglio avesse posto una base fondamentale il gruppo che pianificava il sequestro di Aldo Moro è un atto di fantasia, di voluta malafede. A ciò va aggiunta la presenza, nelle medesime palazzine, di informatori della polizia, come Lucia Mokbel, e di un carabiniere compaesano di Mario Moretti,  Arcangelo Montani, nonché la successiva presenza di Vincenzo Parisi, futuro capo del Sisde. 

Accanto a queste notizie clamorose, il libro presenta numerosi altri spunti, quali il rapporto tra la signora Bozzi Ferrero, proprietaria dell'appartamento in Via Gradoli utilizzato da Moretti, e Giuliana Conforto, proprietaria dell'appartamento in Viale Giulio Cesare dove trovarono rifugio Valerio Morucci e Adriana Faranda fino al giorno dell'arresto. Oppure il legame tra gli episodi chiave del 18 marzo 1978: la scoperta del covo ed il falso comunicato numero 7 delle Brigate Rosse, legame che passa anche per il materiale trovato nel covo, manuali per l'utilizzo di radio, e la presenza di un ponte radio nei pressi del Lago della Duchessa.
Altro aspetto interessante, e costante nella vicenda Moro, riguarda coloro che ebbero un ruolo ambiguo durante il sequestro e che furono protagonisti negli anni seguenti di carriere importanti. Fortuna e coincidenza. Oppure una gratitudine pagata molto bene.

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